Il politically correct sta davvero uccidendo la comicità?
Nell’ultimo periodo si è molto parlato di politically correct e di come stia presumibilmente attentando la comicità e la satira. Ma è davvero così?
Non si fa altro che parlare del politically correct: “non si può dire più nulla”, “non si può più scherzare”. Ma partiamo dal principio, ovvero dalla definizione del politicamente corretto secondo la Treccani:
“[esso] designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona”.
Insomma il politicamente corretto mette in discussione un modo di esprimersi non sempre dei più educati, tentando di “proteggere” le minoranze, già martoriate da un contesto storico/culturale e sociale non favorevole.
Allora perché non è ben visto? L’obiezione che si fa al politicamente corretto, specialmente in Italia, è quella che intacchi la libertà di espressione e che intervenga solo sulla forma – e quindi sulla lingua -, tralasciando quelli che sono i problemi reali; una forma di ipocrisia, insomma. Ma non è una visione un po’ superficiale? Quando viene fatto notare che un termine o determinate espressioni, magari accompagnati da gesti, non siano consoni, bisognerebbe, piuttosto che rammaricarsi di “non poter dire più nulla”, riflettere sul perché proprio quel termine/espressione sia offensivo. Nella maggioranza dei casi si tratta di parole o gesti che posseggono una storia alle spalle che non può essere esclusa. Basti pensare alle parola ne*ro. Bisognerebbe anche chiedersi se si ha estrema necessità di dire proprio quel termine o se si può utilizzare ai fini del discorso anche un altro (molto probabilmente sarà così).
Perché loro sì e io no?
Abbiamo detto che il politically correct si riferisce soprattutto alle minoranze. Un’altra obiezione che si fa in merito a essa è che una determinata categoria discriminata possa fare utilizzo di quelle stesse parole che la offendono mentre, chi non ne fa parte, è esente (quasi in ogni caso). La domanda qui è, perché una categoria discriminata non può riappropriarsi di quelle espressioni offensive senza volere che anche gli altri, i non-discriminati, le utilizzino? Forse perché in quel caso non c’è niente di cui riappropriarsi, anzi, c’è solo da lasciare andare e lasciare che quel pezzo identitario formato da lettere e gesti ritorni a chi appartenga. Ovvio che poi ci sono le eccezioni; c’è chi può non ritenere determinare parole offensive ma insomma, se il rischio è tra offendere o meno, perché buttarsi sulla prima?
Ma allora non si può scherzare?
Quindi, ricapitolando: se si è arrivati al punto da riconoscere che certe cose non sta bene dirle o farle, perché prendono di mira categorie che subiscono discriminazione, allora non si può neanche scherzare? Certo che si può ma forse ci si è resi conto, semplicemente, che certe cose non facciano più ridere. O meglio fanno ridere se dette in un certo modo, nel modo corretto. D’altronde la satira e il black humor non sono arti da tutti e di certo non comprendono di base l’offesa bensì il dissacrare argomenti quotidiani o taboo.
La comicità non è morta perché dobbiamo fare attenzione a quello che diciamo, perché sembra di camminare sul filo spinato ogni volta che apriamo bocca, ma forse perché è cambiato il modo di far ridere. Insomma, perché abbiamo riso – e stiamo ridendo ancora – per un tubo che fa rumore se lo giri? O per un uomo di mezza età che ripete più volte “So’ Lillo”?
Il politically correct non dovrebbe essere considerato l’assassino della libertà di espressione, bensì un modo per riflettere e per ponderare il nostro modo di esprimerci, figlio di un retaggio culturale non più a passo con i tempi.
Lo psicoanalista Jacques Lacan diceva che il processo di costruzione della soggettività avviene attraverso due fasi: una di tipo immaginaria, il cui il soggetto si riconosce per la prima volta guardandosi allo specchio e una seconda simbolica, in cui il soggetto conferma la sua identità quando l’altro gli associa un nome.
Affermare che le parole non siano importanti è sbagliato, darne il giusto peso è rispettare l’identità di ciascuno di noi.
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Classe ’00.
Femminista e appassionata di scrittura e cinema.
Studio per diventare giornalista.
Vice direttrice
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